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Lo ZEN e l'arte della ricettazione della motocicletta

di Andrea Saviano
finalista al concorso "Dal manoscritto al libro" 2009


Sasà era nato e cresciuto nella borgata “San Filippo Neri” di Palermo, un quartiere interamente costituito da fabbricati di edilizia popolare suddiviso in due aree con diverse caratteristiche costruttive e comunemente note come “ZEN 1” e “ZEN 2”. ZEN era un acronimo e riassumeva le parole Zona Espansione Nord.

Lo scarso interesse della politica sul piano di lavoro (esauritosi subito dopo l'approvazione del progetto), la vastità e l'eccessiva ambizione dell'intervento urbanistico e i tipici ritardi burocratici avevano portato in pochi anni ad un'occupazione illegittima degli alloggi e alla mancata realizzazione di molte delle fondamentali opere infrastrutturali. Basti pensare che gran parte del quartiere era ancora privo della rete fognaria.

A nulla era valsa la realizzazione nel quartiere di un velodromo per fungere da centro d'aggregazione. Tant'è vero che si pensava alla demolizione della struttura sportiva per costruire al suo posto l'eventuale nuovo stadio di calcio della città. Specchio dell'imbarbarimento sociale erano la quasi totale assenza di manutenzione dei fabbricati e gli alti tassi di microcriminalità che caratterizzavano l'area.

Nonostante l'attenzione dei media, le denunce e l'impegno delle istituzioni religiose e del volontariato, la situazione del quartiere rimaneva allarmante, tanto da spingere la politica a proporne la demolizione.

Per chi, come Sasà, era nato e cresciuto lì lo ZEN non era certo un Inferno. Più che altro perché per avere il concetto del luogo dell'eterna dannazione, bisognerebbe avere l'idea di cosa sia il Paradiso o almeno l'esperienza del Purgatorio ma, avendo lui abbandonato la scuola nel periodo delle elementari, la visione che aveva del mondo era piuttosto limitata e ridotta a qualche quartiere di Palermo.

Ora, secondo Sasà l'idea di Purgatorio era il carcere minorile “Malaspina”, rinchiuso lì per alcuni mesi, era stato costretto a seguire dei progetti per il recupero e l'integrazione dei ragazzi a rischio.

Se si fosse trattato solo di recuperare gli anni scolastici perduti, quell'esperienza si sarebbe ridotta ad un vero e proprio Inferno. Dopotutto, quelli che abbandonavano la scuola lo facevano semplicemente perché lo studiare non era a loro congeniale. In fin dei conti sapere dov'è Milano o conoscere i nomi dei re di Roma a cosa serve nella vita?

Tuttavia, a rendere un Purgatorio e non un Inferno quel soggiorno, erano stati gli obblighi legati allo svolgimento di attività pratiche, una su tutte: il corso che aveva frequentato per manutentore di motociclette.

Lui aveva una passione per i motori che sfiorava la malattia. In particolare amava le moto e Valentino Rossi, ma – per quel che concerneva la meccanica – fino allora era stato un autodidatta.

Adesso, finalmente, aveva imparato come smontare e rimontare correttamente un motore e aveva appreso i segreti per registrare le punterie, sistemare il carburatore e regolare la fase scegliendo la marmitta giusta.

Insomma, aveva imparato che, se si sapeva tarare e ricalibrare i meccanismi che regolano la carburazione, la moto rispondeva meglio ad ogni apertura del gas, evitando i fastidiosi “vuoti”. In tal modo il motore aveva un andamento più sciolto, una vita più lunga e un funzionamento migliore.

Durante quelle lezioni, aveva scoperto che per ottenere una carburazione ottimale doveva trovare il corretto rapporto tra aria e benzina, che con poca aria si aveva una carburazione “grassa” e con poca benzina una carburazione “magra”.

Se la carburazione era troppo magra il motore rischiava di grippare, mentre se era troppo grassa – come si diceva in gergo – il pistone correva il rischio di “affogare”. A Sasà era subito piaciuto il fatto che in quel corso esistesse un gergo, perché la cosa gli dava un senso d'appartenenza al gruppo, quasi si trattasse di un'èlite.

Ora, trovare quel giusto rapporto non era semplice. Anche solo per avvicinarsi al corretto valore si doveva intervenire su diverse parti del carburatore: sul getto massimo o gigleur, sul getto minimo, sull'altezza del seeger che bloccava la corsa dello spillo, sulla vite di regolazione del minimo e sulla vite di regolazione dell'aria – ammesso che questa avvenisse manualmente, perché se il carburatore aveva l'aria automatica, in quel caso non era possibile fare alcun tipo d'intervento. Tutto ciò era molto più interessante di storia, geografia e – soprattutto – italiano.

Sasà durante i noiosissimi dettati s'era sempre chiesto a cosa servisse saper leggere e scrivere in italiano quando avrebbe trascorso tutta la sua vita in un quartiere dove si parlava solo ed esclusivamente il palermitano?

Dopotutto aveva già sedici anni! Quanto gli restava ancora da vivere? Visto dove viveva e il giro che frequentava, se tutto andava bene, altri sedici anni.

Scontata la pena e tornato in libertà, una volta uscito dal carcere minorile le raccomandazioni del direttore lo avevano seguito solo per un paio di passi oltre il portone. Giusto il tempo d'accendersi una sigaretta, poi aveva preso il sopravvento il fatto che ad attenderlo ci sarebbero state la vita di tutti i giorni e gli amici del quartiere.

Fumò la sigaretta godendosi la ritrovata libertà in attesa che arrivasse a prenderlo in motorino Sabedda – la sua ragazza – e con lei sarebbe tornato al quartiere.

Arrivati nei pressi dei primi edifici dello ZEN, il ragazzo aveva detto: « Sabedda, chisto è nu quartieri tutto au contraro, cangiari nun è possibili pirchì avria a èssiri a genti chi ci stari a fari u cangiamentu e chista genti nun voli cangiari. »

La ragazza non commentò la cosa, dopotutto anche lei apparteneva a quel girone dei vinti e anche lei non riusciva più ad annaffiare e coltivare la delicata pianta della speranza.

Isabella, questo era il suo nome, aveva solo un anno in meno di Sasà, cioè di Salvatore.

I due erano praticamente cresciuti insieme. Anzi, come lei aveva imparato a camminare, da quel giorno aveva seguito ogni passo che Sasà – allora bambino – aveva fatto per strada, diventandone in pratica l'ombra. Insieme avevano giocato, erano andati – anche se per poco – a scuola, andavano al cinema e – da quando di recente avevano deciso di convivere – facevano l'amore.

La loro era stata una vita vissuta bruciando le tappe. Dal giorno in cui i loro genitori non avevano deciso d'abortirli tutto era accaduto velocemente, perché in quel quartiere la vita correva ad una velocità doppia. Forse questo era il vero motivo per il quale nessuno lottava per un futuro migliore, semplicemente perché il presente correva così celere che bisognava afferrarlo prima che diventasse già passato.

Sebbene la media italiana fosse di circa ottant'anni, Sasà sapeva bene d'avere un'aspettativa di vita non superiore a 45 anni.

In quel quartiere i bambini nascevano già sapendo che da adulti sarebbero stati venduti come oggetti sessuali o impiegati come manodopera a basso costo e, in entrambi i casi, avrebbero solo arricchito la delinquenza. Questo era il motivo per cui l'obiettivo di tutti era quello d'entrare a far parte della malavita e, a quel punto, potersi arricchire. Poco importava se ciò sarebbe accaduto a scapito degli altri.

Se ad un estraneo tutto questo poteva sembrare un orrore per chi lì c'era nato e vissuto non lo era ed era probabilmente per questa ragione che le donne continuavano a sfornare disgraziati che poi sarebbero stati sfruttati e schiavizzati, lì allo ZEN di Palermo dalla mafia, come dopotutto accadeva alle vele di Scampia a Napoli da parte della camorra.

Allora, che valore può mai avere il diritto alla vita prima di nascere, se da adulti si muore ammazzati per un colpo d'arma da fuoco, per un'overdose o semplicemente perché non si è usato un preservativo?

Questo Sasà se lo chiedeva spesso e, siccome la risposta a tutto ciò gli sembrava essere: la giusta punizione di Dio, odiava i preti e tutti coloro che chiamavano Palermo e Napoli le novelle Sodoma e Gomorra.

Ormai erano giunti nel cuore del quartiere. Sabedda però non si fermò con il motorino davanti a casa ma in corrispondenza dell'officina meccanica di un autoriparatore.

Sasà scese, baciò la ragazza quindi si diresse all'interno del garage salutando alcune delle persone intente a svolgere varie attività.

Lei non rimase fuori ad attenderlo, ma partì quasi subito verso casa e lì avrebbe atteso il suo ritorno la sera. Sapeva bene che il suo ragazzo doveva riprendere il lavoro da subito.

Sasà non ebbe nemmeno bisogno di parlare o di chiedere, conosceva già cosa c'era da fare: doveva terminare il lavoretto che l'arresto aveva interrotto. Una cosa che solo lui avrebbe saputo portare a termine.

Scese attraverso una rampa in una specie di scantinato. Lì un telo nascondeva un ammasso informe.

Sasà lo sollevò scoprendo un cumulo di pezzi di moto. Mezzi che prima erano stati rubati e poi smontati in ogni loro componente in modo da perdere la loro identità originaria. In questo modo i componenti, opportunamente ricombinati, davano vita di volta in volta a qualcosa di diverso.

Di fianco al cumulo c'era un carrello porta-attrezzi da cui Sasà estrasse alcuni cacciaviti e alcune chiavi.

Afferrò una vaschetta della benzina e osservò con cognizione di causa la vite dorata che interveniva per regolare l'apertura massima del gas.

Decise che l'avrebbe regolata in maniera differente, un getto più grasso agli alti regimi avrebbe evitato il pericolo di grippare.

Osservò anche l'altra vite dorata, quella più piccola del minimo. Era danneggiata, sarebbe stato meglio sostituirla. Controllò l'altezza del seeger che bloccava la corsa dello spillo. Variandone la posizione avrebbe modificato la carburazione.

« Se si mette in una tacca più in basso la miscela s'ingrassa, se invece lo mettiamo su una tacca più alta si smagrisce, » gli aveva spiegato l'istruttore in carcere.

Fece ciò con estrema delicatezza, perché quella era un'operazione piuttosto complessa. Innanzitutto avrebbe dovuto smontare il filo del gas comprimendo la molla che collegava il filo alla ghigliottina. Solo a quel punto avrebbe avuto in mano la ghigliottina e con essa lo spillo che era al suo interno.

Quando riuscì ad afferrare lo spillo, tolse il seeger e lo spostò in una gola differente.

Fatto ciò, rimise lo spillo all'interno della ghigliottina e infilò nuovamente la molla, quindi rimontò il carburatore.

Poi proseguì con gli altri pezzi, fino a farli tornare ad essere una motocicletta.

Provò l'accensione e verificò il comportamento ai vari regimi, quindi chiamò al telefono chi di dovere per avvisarlo che la moto era pronta e che bastava passare a ritirarla.

Ciò che di urgente aveva da fare era stato fatto, adesso poteva andare a casa dove ad attenderlo ci sarebbe stata la sua ragazza.

S'avviò a piedi rivivendo in quei pochi metri tutti i ricordi della sua breve infanzia e, in ogni singolo istante, la presenza accanto a lui di Sabedda.

Salì le scale ed entrò nell'appartamento che abusivamente avevano occupato.

Dentro non c'era nessuno.

Si diresse in cucina e lì, sul tavolo, trovò un foglio con un appunto. Quel poco d'italiano che aveva appreso alle elementari bastava e avanzava per comprenderne il messaggio scritto rigorosamente in palermitano: la ragazza era andata in negozio a comprare qualcosa da mangiare.

Sasà, ansioso di rivederla, decise di attenderne il ritorno sul balcone in modo da poterla scorgere non appena avesse girato l'angolo del viale che portava al negozio.

Non erano nemmeno trascorsi dieci minuti quando la vide comparire da dietro l'edificio che delimitava la fine del viale.

Agitò il braccio per salutarla e lei rispose al saluto. Poi, tutto accadde nel volgere di un attimo.

Due tizi in moto comparvero all'improvviso afferrando al volo la borsetta che la ragazza portava al braccio.

La ragazza fece resistenza, cosicché il passeggero si trovò sbalzato da sella. Mentre tra i due era nata una contesa sul possesso della borsetta, il guidatore aveva girato la moto, infilato la mano dietro la schiena ed estratto una pistola.

« No, » gridò Sasà dal balcone, ma il suo grido fu soffocato da due secchi colpi di rivoltella.

Sabedda s'accasciò sull'asfalto mentre una larga macchia di sangue ne circondò rapidamente il corpo esanime.

La gente che fino ad un istante prima popolava la strada era improvvisamente scomparsa, rendendo quel viale più desolato di un deserto.

Di sicuro nessuno di costoro avrebbe mai fornito alla polizia o ai carabinieri una descrizione degli scippatori o della motocicletta. Questa predisposizione all'omertà Sasà la conosceva bene, anche perché gli apparteneva, e altrettanto bene sapeva che non avrebbe potuto farsi giustizia da solo senza pagare con la sua stessa vita questo sgarro.

Cosa fare?

Gli avevano strappato dal cuore la voglia stessa di vivere, per cui non poteva ignorare che il crudele fato aveva portato in quel viale proprio la motocicletta che lui aveva ricostruito quel giorno.

Andò in camera da letto. Prese la rivoltella che nascondeva nel materasso. Afferrò con le mani che tremavano il cellulare e cercò in memoria l'ultima chiamata effettuata, quindi richiamò quel numero fissando un urgente appuntamento in officina per un errore che aveva commesso in fase di montaggio.

A quel punto Sasà infilò la pistola nella cintola dei pantaloni quindi s'avviò verso il suo immediato presente, quello che non gli avrebbe più dato alcun futuro.

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